BROLLE IL DAZIERE,
di Mauro Balani

C'è sempre una spiegazione delle cose terrene di cui all'uomo è dato disporre. Il caso, la sorte rendono ragione delle fortune fugaci ma non sostengono la maggior fama che il tempo consolida. Non vi può essere mera accidentalità nell'indissolubile legame tra una località ed i suoi caratteristici prodotti agricoli. Ha sembianza di dogma l'immediata associazione della lenticchia a Castelluccio, delle cipolle a Cannara, delle ciliegie a Capodacqua di Assisi. Ricondurre il tutto alla conformazione del terreno, all'esposizione, al clima, è talmente banale da non dover essere preso minimamente in considerazione, pur potendo corrispondere al vero. Meno vera ma non certamente falsa, poco attendibile ma piacevolmente credibile, è la storia che Brolle racconta seduto a meriggiare sotto la quercia più alta del Col del Bensi. Classe 1910, ultimo di sette fratelli tutti di brutta presenza, discreta ignoranza, avvezzi a vivere di prepotenza. Brolle del difetto d'esser strabico ne aveva tratto una virtù e seduto laddove ancora siede, senza muovere il capo, riusciva a controllare quanti varcavano il colle venendo da Assisi e quanti in direzione opposta giungevano da Spello. Non gli sfuggiva nulla, così da riuscire ad avvertire i fratelli di tutto il traffico all'apparenza interessante, la cui sostanza andava verificata, al fine di applicare un giusto dazio o procedere al saccheggio. La dura vita dei dazieri ebbe una svolta nel 1930, in occasione delle nozze reali di Boris III e Giovanna di Bulgaria. Gli sposi, dopo il rito religioso presso la Basilica di San Francesco e il saluto alla città dal verone del palazzo comunale, si sarebbero trasferiti presso villa Costanzi in Spello, oggi villa Fidelia, per la colazione nuziale. Le auto degli sposi e degli augusti invitati seguirono il percorso di pianura costeggiando Santa Trinità, mentre le guardie reali pensarono bene di riservare al trasporto dei doni nuziali il percorso alternativo di Capodacqua, per maggior sicurezza, non essendo tale strada indicata nel protocollo del cerimoniale. Era invece la via che conduceva proprio nella bocca del lupo. Per Brolle e i suoi fratelli l'occasione era unica ed irripetibile. Su quelle macchine, tra le altre cose, venivano trasportati una ceramica di Basilio Cascella, raffigurante Cristo e la Maddalena, dono del Senato, una scultura di Arturo Dazzi, "Il capriolo morente", dono della Camera, un arazzo ricamato, dono della città di Assisi. Quando le automobili furono fermate per la perquisizione di rito, gli improvvisati dazieri giudicarono questi beni privi di valore, tanto da dedurne uno stato di povertà assoluta delle famiglie reali e tanto da sentirsi in dovere di provvedere in qualche modo alla riuscita di una colazione che si prospettava assai austera. Nel mentre si procedeva a tirare il collo a trentasei faraone, tutte le guardie reali erano in inevitabile stato fermo. Brolle cercava di alleviare l'attesa con delle ciliegie sotto spirito che lanciava da debita distanza, una ad una, verso i malcapitati, costretti a spalancare le bocche come dei passerottini. Terminate le ciliegie, invitati a bere nel vaso, dove già avevano tracannato tutti i fratelli, ricorsero ad un improvvisato bicchiere: l'artistica coppa in vetro di Murano e graffito in oro zecchino con miniature a smalto, eseguita dall'artista Luigi Rossetti ed offerta agli sposi dalla ditta Buoncompagni. Anche Brolle, incuriosito, volle bere da quella coppa di straordinario valore, imitato immediatamente dagli altri fratelli. Le guardie, alla loro ripartenza, con le faraone penzolanti dai finestrini, non osarono nemmeno pensare di poter restituire lustro reale alla coppa avvilita da quelle terribili bocche. Decisero di abbandonare il dono, ma dell'accaduto se ne parlò sin troppo. Anche se l'invidia non s'addice agli animi nobili, dei conti marchigiani offrirono ai fratelloni, in cambio della preziosa coppa, il migliore podere di Gabbiano. Brolle, che è di poche parole, nel raccontare la vicenda si ferma sempre alle ciliegie, oggi come settanta anni fa. Tutti a Capodacqua hanno sempre pensato che coltivando ciliegie si ricevono in cambio poderi. Nessuno più è arricchito con questi frutti, ma pur svolgendo regolarmente altri lavori, nel dubbio, ognuno cura almeno un albero di ciliegio.

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